Le mafie dietro al doping australiano

Uno spettro si aggira per l’Europa, diceva Marx parlando del comunismo. Uno spettro si aggira per il mondo dello sport, forse mai diffuso come oggi: il doping. Dopo la squalifica di Li Zhesi, le confessioni di Armstrong, gli scandali a raffica nel nuoto brasiliano, ora il peso di un’indagine durata un anno rischia di soffocare la reputazione dello sport australiano. La Australian Crime Commission ha infatti scoperto più di 100 casi di stretti legami tra criminalità organizzata e casi di atleti “Aussie” dopati.  “Non mi sorprende – dice John Faley, a capo dell’Agenzia Mondiale Anti-doping – sembra la storia dello sport: si cerca di evitare di affrontare il problema finché qualcosa non viene alla luce. E’ successo col movimento olimpico, recentemente col ciclismo e ora qui in Australia, purtroppo”. Faley è molto critico riguardo alle attuali tecniche anti-doping, laddove dei test analitici, come quelli che hanno sbugiardato Amrstrong, risulterebbero ben più efficaci dei soliti esami del sangue o delle urine. Quando parla delle federazioni sportive, poi, usa un linguaggio che richiama mafia e omertà “Gli atleti puliti non possono più sentirsi protetti da un sistema del genere. Le stesse organizzazioni non fanno nulla per combattere questa piaga o, peggio, coprono immediatamente quel poco che viene fuori di tanto in tanto”. Nessuno sport nello specifico è stato ancora citato come caso, anche se il rugby australiano pare essere il primo agnello sacrificato sull’altare dell’anti-doping. Primo, c’è da scommetterci, di una lunga lista.
 
moscarella@swimbiz.it  

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